Determinante

Wharf

E’ l’odore che inizia la sequenza dei ricordi, sempre. L’odore del
caffe’ e delle spezie, la cipolla che fa a gara con l’aroma di pane
caldo, intimo odore di una cucina improbabile legata a tante semplici
occasioni quotidiane. Il brusio del Mario’s Bohemian Cigar Store Cafe
e’ lieve, accompagnato dal vapore della macchina del caffe’, salutato
dagli acuti di posate su piatti e della leggera armonia di bicchieri
bevuti distrattamente. Da dove sono seduto posso vedere Washington
Square con i suoi fresbee, il prato verde, la chiesa bianca sullo
sfondo di alberi scuri, il traffico regolare della Columbus che scende
dal centro. Dicono che chi viene a North Beach lo fa essenzialmente
per le ragazze, io lo faccio per questo locale. Oddio, se ogni tanto,
dico almeno una volta, riuscissi anche a parlare, non dico altro,
giusto parlare con una ragazza, be’, proprio schifo non mi farebbe. Ma
vengo qui essenzialmente per questo locale, ormai da due anni. JF
davanti a me sta addentando il suo secondo sandwich di pollo e carote,
e’ stanco, da qualche giorno parla poco, non e’ da lui. Il mio
Original Italian Panino giace a meta’ stramazzato nel piatto, il pane
di cipolla e’ troppo forte anche per me a quest’ora del mattino.
Vorrei chiedere alla cameriera bionda con le lentigini in che parte
dell’Italia hanno trovato la ricetta di questo panino, perche’ di
Italian ha ben poco, molto di Original. Ma sto zitto, ascolto il
ruminare intorno ed immagino il rumore dell’erba la fuori, nel prato.
In ogni caso vengo qua non per il cibo, ma per le pareti, stracolme di
foto, trent’anni di foto di quel bancone stipate in pochi metri
quadri. Mi e’ sempre piaciuto questo mosaico variegato di volti, pose,
sorrisi, facce che chissa’ dove sono ora, se ci sono ancora o se
adesso parlano la lingua segreta del terreno umido e fondo. Alcune
foto sono in bianco e nero, molte Polaroid che parlano di un tempo in
cui fare la foto aveva il sapore chimico della carta da asciugare
appena uscita dalla macchinetta, in cui ogni singolo scatto aveva
valore perche’ non potevi mica farne 200 e poi scegliere il migliore.
Questa parete mi ipnotizza, ogni volta che vengo qua. Oggi il sole e’
generoso con San Francisco, anche se siamo ad ottobre inoltrato posso
girare in maglietta e jeans, gli occhiali da sole nascondono le mie
perplessita’ e la vitiligine. JF ha la sua camicia di flanella a
scacchi, non ho mai capito se usa sempre la stessa o se ne ha una
collezione. Ho provato a far notare che fa un caldo spaventoso oggi,
mi ha osservato dal fondo dei suoi occhi come se avessi detto una cosa
banale, non mi ha nemmeno risposto.

Siamo stati al City Light con JF, ci tenevo, fa parte del mio
itinerario consueto quando vengo a San Francisco. Abbiamo ascoltato
una tipa decisamente alternativa (a cosa non era del tutto chiaro)
declamare poesie, non ci ho capito molto, come sempre, alla fine ci
siamo alzati in silenzio e siamo venuti qui davanti, sul prato, a
finire i nostri calcoli per l’articolo. Le matrici trasfinite
continuano a non dare il risultato sperato, io sono sconfortato, il
mio lavoro di dottorato sembra arenato, JF sembra curarsene poco. Ed
ora il panino dietro questi vetri che in parte ci riflettono, davanti
al mosaico di foto che tante volte ho osservato.

“JF, tutto bene?” provo a buttare li, senza molto entusiasmo. Si
ferma, il boccone a meta’, fa cenno con la testa verso il prato la
fuori, oltre il vetro e biascica un “Sto ancora pensando ai tuoi
calcoli sbagliati”. Mi fa sorridere quella sua abitudine di parlare di
calcoli miei quando sono sbagliati, nostri quando danno risultati
interessanti (cioe’ quasi mai). “Io credo”, continua, “che tu debba
riunciare all’idea di consegnare per Natale. Prendiamoci qualche mese
di tempo, io poi sono stanco ed ho poco appetito per la Matematica”.
Sputa l’ultima frase insieme ad un pezzetto di pollo, e questo mi
preoccupa, molto. Non il pollo, la sua frase sulla Matematica intendo.
Mi agito sulla sedia, non so cosa dire, non l’ho mai sentito di questo
umore in tutti questi anni, lo sguardo oscilla tra il prato verde di
Washington Square e la pletora di volti multicolori appiccicati alla
parete di fronte. “Va bene JF, potrei provare a consegnare a febbraio,
che dici, un paio di mesi in piu'”. Scuote la testa con i capelli
lunghi ed unti che sottolineano ancor di piu’ la calvizie frontale
“No, a febbraio ho le udienze in tribunale con la mia terza”. Moglie,
la terza moglie, ormai le chiama usando i numeri ordinali, non
specifica nemmeno piu’ di cosa si tratta, e’ chiaro dal contesto. “Ok
ok. Che ne dici di marzo?”. Sembra pensare per un attimo, deglutisce
un altro pezzo di pollo. “No, niente da fare, ho le lezioni a Mosca e
poi il battesimo del sesto”. Figlio, sesto figlio. Numeri ordinali
anche in questo caso, e’ il contesto a specificare. “Ho capito JF.
Senti, che ne dici se rinuncio e non consegno proprio la tesi? In
fondo tre anni di lavoro cosa vuoi che siano”. So che giocare la carta
dell’ironia con JF e’ come provarci con la cameriera che con grazia
passa tra i tavoli vicino a noi, del tutto inutile. “Oh, beh, si, e’
una vita che te le dico anche io, secondo me sarebbe un’idea
grandiosa”. Ecco, infatti. “JF, ero ironico. A te frega poco, ma io
questo Dottorato lo devo prendere, ok? E’ importante, per me. E forse
lo avrei gia’ preso, se tu non fossi cosi’ sempre dannatamente
ipercritico sul mio lavoro”. Sembra stupito, non offeso. “Ipercritico?
Ipercritico”. Sembra assaporare la parola, come se fosse la prima
volta che la sente. Ci pensa su, poi posa il suo sguardo su qualche
punto all’infinito, come fa di solito quando non e` piu` interessato
ad una conversazione. Mi pento subito di esser stato brusco con lui,
mi ha salvato la vita in diverse occasioni, quella accademica e quella
personale. Devo molto a lui, forse tutto. Eppure e’ cosi’ dannatamente
insopportabile a volte. “Facciamo due passi al Wharf” mi dice dopo
qualche minuto, interrompendo il rumore confuso dei miei pensieri.

C’e’ odore di mare, il vento porta il profumo della baia, preludio
dell’oceano. Alcatraz sembra quasi dover salpare da un momento
all’altro, ti aspetti di vederla muovere l’acqua intorno in placide
onde, spostarsi lentamente sotto il Golden Gate e sparire alla vista
per sempre. Disegno gabbiani sul mio tacuino, mentre JF in silenzio si
rolla una delle sue pestilenziali sigarette al timo. “Va bene,
facciamo febbraio” mi dice con un sorriso leggero, il primo che gli
vedo da settimane. “Ma come fai con le udienze?” chiedo io sollevando
lo sguardo dallo scarabocchio che mi ostino a chiamare disegno. Alza
le spalle e mette la sigaretta in bocca in un colpo solo, come per
dire chissenefrega. Mi sento un po’ in colpa, pero’ sono sollevato,
sento che e’ sincero, che se dice febbraio allora pensa che davvero io
possa finire l’articolo e la tesi in pochi mesi. “Sei felice Ric?”. La
domanda arriva a bruciapelo, tra il verso di un gabbiano ed il rumore
lontano di un traghetto che avverte chissa’ chi o chissa’ cosa del suo
placido passaggio. “Voglio dire, posto che la matematica che fai non
serve a niente e non otterrai mai risultati degni di nota, che in
ventisei anni non hai mai conosciuto una donna se non in fotografia e
che ho poche speranze per la tua vita futura, ma dico, nel quotidiano,
sei felice?”. Accenno una debole difesa “Come sarebbe a dire.
Dimentichi le gemelle Tampestaus.”. “No”, risponde lui con lo sguardo
appiccicato al ponte in lontananza. “Sei tu che dimentichi quella
sera. A te capito’ la gemella maschio”. Il silenzio e’ la mia miglior
risposta, come sempre ha ragione lui, avevo rimosso quella orribile
serata. Rinuncio alla difesa provo una contromossa: “Cosa posso
dirti, penso di si, penso di essere felice. La felicita’ non e’ un
diritto, la si conquista di giorno in giorno. Nelle piccole cose, nel
quotidiano come dici tu. Fai la spesa, mangi con un amico, ti riesce
qualche dimostrazione, vedi un film, leggi un libro. Che altro si puo’
fare? Si e’ felici quando si riesce a mettere a fuoco, quando si
fissano piccoli obiettivi.” Mi fermo al suono stupido delle mie
parole, anche i gabbiani si sono fermati ad ascoltarmi. Quello che ho
davanti piega la testa di lato, come a sottolineare la perplessita’ di
quanto ho appena detto. “Ma perche’ me lo chiedi JF, tu non sei
felice?”. Sorride sbieco, la sigaretta al timo proseguimento
dell’orizzonte, i capelli sempre piu’ radi davanti che sventolano in
direzioni scomposte. “Prendi la matrice Theta che abbiamo visto prima
sul prato. Non era invertibile, tu non te ne sei accorto perche’ hai
sbagliato per due mesi un semplice calcolo. E quando ti ho mostrato
che non era invertibile, che i segni piu’ e meno erano tali che alla
fine il determinante si annulla, la tua quotidianita’ ti e’ caduta
addosso, hai visto il lavoro di giorni e notti caderti addosso. Sei
felice di questo?”. “Non capisco, JF, come sempre non ti capisco.
Certo che non sono felice che il determinante di quella cazzo di
matrice sia zero. Ci avevo basato tutti i miei calcoli per il capitolo
finale e tu me l’hai smontati in pochi secondi. Un segno, non ho visto
il segno del terzo elemento della matrice. Ma cosa c’entra con la
felicita’ in generale? E’ un incidente, un calcolo, pazienza, chi se
ne frega della matematica. La mia felicita’ non e’ nel determinante di
una matrice, JF.”. Si volta verso di me con il tipico sguardo del
prof. Peppermaus, non e’ piu’ JF che mi guarda ora. “Lo dici a me o a
te? O a quel gabbiano? Nel determinante di una matrice, ragazzo, ci
sono molte cose. E’ la danza di molti numeri che concorrono ad un
semplice risultato: la matrice sara’ invertibile o meno? E basta che
uno qualsiasi di quei numeri cambi, anche solo per un banale segno, ed
anche il risultato cambia. Definitivamente. E tu non puoi farci nulla,
assolutamente nulla. La felicita’ non e’ la semplice somma dei tuoi
quotidiani gesti di gratificazione, cosi’ come il determinante non e’
la semplice somma degli elementi della matrice. La felicita’ e’ un
equilibrio particolare e strano, cambia una qualsiasi delle tue
piccole scelte giornaliere e l’effetto non lo puoi prevedere.”. Taccio
a lungo, non sono convinto di aver capito cosa voglia dirmi. Vorrei
essere un gabbiano per poter reclinare la testa di lato ed assumere
l’aria piu’ perplessa dell’universo, ma non sono un gabbiano. “Cos’e’
allora per te la felicita’, JF?” azzardo infine, non sapendo se ho
fatto bene o male. Le parole di JF hanno lo stesso profilo del vento
della baia, sai che e’ aria che viene dall’oceano, salmastra, bella ed
inutile, totalmente inutile. “Per me la felicita’ e’ svegliarsi ogni
mattina senza sapere esattamente dove sono, capirlo solo dopo pochi
minuti. E’ il non sapere se il determinante della mia matrice e’ nullo
oppure no. Ma ne riparliamo a febbraio quando ti dottori, ragazzo”.
Quel ragazzo chiude l’argomento per ogg. Io adesso non lo so, su
questo pontile di cemento che ci proietta verso la baia di San
Francisco, con la citta’ di metallo e persone alle spalle, i suoni
sommessi del mare che rispondono alle sirene in lontananza, io adesso
non lo so ancora, ma a febbraio non mi dottorero’. E lui non mi
parlera’ piu’ della sua matrice, invertibile o meno, morira’ dopo un
anno senza avermi risposto veramente.

Le Finestre

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” Non so se era l’alba
o la sera
forse mezzanotte
non so.
Tutte le finestre della mia vita
sono rientrate alla mia stanza
con tendine e senza tendine
mi piacciono le tendine di cotone
ma ce n’erano anche di tulle
e stoini neri
li tiravo e li lasciavo
e li tiravo di nuovo
qualcuno non è più sceso
qualcuno non è più salito
e finestre con i vetri rotti
mi son ferito a una mano
e qualcuna senza vetri.
Le finestre senza vetri mi commuovono
come gli occhiali senza lenti. ”

da Le Finestre, di Nazim Hikmet